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lunedì 19 settembre 2016

Femminicidio e stalking nella storia e nella letteratura... perche conoscere e' sempre meglio che ignorare...

Femminicidio e stalking  sembrerebbero temi così attuali, eppure sono così antichi. Gli episodi tramandati dagli storiografi della letteratura latina e le iscrizioni funerarie di età imperiale sembrano le prime pagine dei giornali del nuovo millennio: stalking e femminicidio, corteggiamenti ossessivi e omicidi violenti. Dall’antica Roma ad oggi non è cambiato niente.La storia della letteratura latina è tempestata di episodi di donne uccise dai loro mariti o costrette al suicidio da circostanze divenute insostenibili. Livio, nel suo Ab Urbe Condita, ci ricorda il celebre episodio della cacciata dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo: ad accendere gli animi dell’insurrezione, cui seguì l’instaurazione della Repubblica, fu l’oltraggio compiuto da Sestio Tarquinio, figlio del re tiranno, ai danni della nobile matrona romana Lucrezia, moglie di Collatino, che dopo aver subito la brutalità dello stupro decise di togliersi la vita, lavando con il proprio sangue la macchia della vergogna.
Ancora Livio racconta la storia di Virginia, una giovane plebea “corteggiata” e rapita dal patrizio Appio Claudio: l’uomo intentò un processo alla fanciulla, con lo scopo di ridurla al rango di schiava al suo servizio, ma il padre della ragazza, Virginio, che non avrebbe mai accettato un tale destino per la propria figlia, decise di assicurarle la libertà “nell’unico modo in cui gli fu possibile”, con la morte. Lo storico Tacito, invece, in un capitolo degli Annales (XIII, 44), ci tramanda la vicenda di Ponzia Postumia, una donna vissuta al tempo di Nerone, di cui non si conosce nulla eccetto la tragica morte, avvenuta per mano del tribuno della plebe Ottavio Sagitta, in seguito condannato per omicidio: il senatore costrinse la donna all’adulterio e dopo una «notte [che] passò in litigi, preghiere, rimproveri, scuse e, in parte effusioni, ad un tratto, quasi fuori di sé, infiammato dalla passione, trafi[sse] col ferro la donna che nulla sospettava». E infine, ma non meno eclatante, la brutalità dell’imperatore Nerone, giacché, come riportato da Svetonio nelle Vitae Caesaris, fu responsabile della morte della madre Agrippina, della prima moglie Ottavia e si accanì con l’amante Poppea, uccisa con un calcio al ventre che ne portava il figlio. Ma quest’ultima vicenda ci riporta a quella analoga descritta da Filostrato, nelle Vite dei Sofisti, su Annia Regilla, una nobile matrona imparentata con la famiglia imperiale e sposa del ricco console Erode Attico: questi, per un motivo non specificato, ma probabilmente senza una reale intenzione di ucciderla, fece picchiare dal suo liberto Alcimedonte la moglie Regilla che, incinta di otto mesi, morì di parto prematuro dovuto dalle percosse; alla fine del processo sia il console che il liberto furono giudicati innocenti per mancanza di prove.
Se facciamo un passo indietro nella Grecia classica, il mito si rende portatore di quale fosse, effettivamente, la percezione che gli uomini avevano della controparte femminile. La donna non riesce ad uscire dal ruolo di subordinazione alla figura maschile e viene quindi raffigurata come una vittima; il mito di “Medea” sottolinea chiaramente questi aspetti, in aggiunta all’utilitarismo maschile nell’ordine sociale Se la cultura classica attraverso il mito ci ha proposto una visione della donna succube delle dinamiche sociali maschiliste, il cui eco lo si trova anche nella Bibbia attraverso Eva, autrice del peccato originale, ci fornisce inoltre quello che potrebbe essere evidenziato come il primo “caso di stalking”. Infatti è il dio Apollo a macchiarsi per primo di questo reato, inseguendo fino alla disperazione la bellissima ninfa Dafne obbligò la madre Gea a trasformarla in una pianta d’alloro, affinchè potesse sottrarsi al supplizio.
In Italia si adopera anche il termine femicidio, italianizzazione del termine usato nel 1992 da due femministe statunitensi, Jill Radford e Diana Russel, per il titolo del loro libro “Femicide: The politics of woman killing”. E’, questo, un termine per porre fine ad ogni forma di discriminazione e violenza contro le donne in quanto donne, affinchè le donne non debbano più pagare con la loro vita la scelta di essere se stesse e non come vorrebbero i loro fidanzatini, i loro compagni, i loro mariti o ex mariti/compagni. Essi, uccidendo “per amore”, si sentono nobilitati: è, questo, un tema profondamente radicato nella letteratura nostrana. Un esempio possiamo extrapolarlo dalla Divina Commedia di Dante, dal padre della letteratura italiana. In particolare dal canto V della prima cantica, l’Inferno, dove al v. 106 Francesca racconta a Dante: <<Amor condusse noi ad una morte>>. Francesca da Polenta, per unire le due famiglie tra le più rinomate della Romagna, fu data in sposa allo zoppo e rozzo Gianciotto Malatesta, ma la ragazza era innamorata del fratello del suo sposo, Paolo. Questo loro amore condusse Paolo alla morte per mano del marito di Francesca, un vero e proprio fratricidio e, quel che a noi qui più interessa, un uxoricidio.
Altri esempi nel campo della letteratura, musica,:Otello che soffoca Desdemona, la Carmen di Bizet che viene pugnalata,l’eterea e diafana Pia dei Tolomei , di dantesca memoria, fatta uccidere dal marito che voleva risposarsi con un’altra .Arriviamo all’’800, in piena clima romantico ed allora assistiamo ad un cambiamento totale dello scenario:la nobilitazione dell'uomo che uccide "per amore" è profondamente radicata nella nostra letteratura. L'uomo che uccide la "sua" donna compie il più alto sacrificio di sé, in tutta una sublime tradizione artistica e letteraria, più che se ammazzasse sé per amore. E solo oggi, e faticosamente, ci si divincola da questo inaudito retaggio di ammirazione e commiserazione per l'uomo che uccide per amore, e lo si vede nella sua miserabile piccineria.Lo dimostra anche il Rosso e il Nero dello scrittore francese, nel quale Mademoiselle de la Mole "arrivava fino a dirsi: è degno d'essere il mio padrone perché è stato sul punto di uccidermi".
Come si vede tutto e’ incentrato sull’uomo, che e’ il soggetto che scarica la sua azione sulla donna, complemento oggetto.
Di mestiere faccio il linguista, il professore di Lettere Classiche: voglio concludere su questo tema. la lingua cambia in continuazione, è un organismo vivente, vive come vivono gli esseri umani che la usano. Lo sapevano già gli antichi greci, lo sanno i linguisti moderni. L’italiano, ad esempio, si arricchisce di continuo: vi entrano forme da altre lingue (oggi soprattutto dall’inglese), dai dialetti, si creano parole nuove per rispondere ai bisogni della società. E, nello stesso tempo, qualche parola o espressione cade in disuso e scompare, come è naturale nel ciclo perenne della vita. 
«Se l’italiano ha già la parola omicidio, che indica l’assassinio dell’uomo e della donna, perché creare una parola nuova? Non è inutile?». La risposta, come spesso càpita, ce la danno i vocabolari. La voce «femmina» viene spiegata cosi: ‘essere umano di sesso femminile, spesso con valore spregiativo’. Badate all’aggettivo «spregiativo», la soluzione è lì. Il «femminicidio» indica l’assassinio legato a un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la compagna, l’ amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari; se la proprietà viene negata, se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca.
Io non so se questo atteggiamento sia generato da alcune abitudini della società in cui viviamo: una società che, insieme, esibisce sfacciatamente il corpo femminile visto come una merce e preferisce ascoltare chi urla e offende invece di riflettere sulla ragionevolezza delle argomentazioni. Chi mi conosce sa che non sono un parruccone pudibondo; mi ripugnano l’arbitrio, la mancanza di rispetto, l’offesa. Torniamo alla lingua. Se una società genera forme mostruose di sopraffazione e di violenza, bisogna inventare un termine che esprima quella violenza e quella sopraffazione. E quindi è giusto usare «femminicidio», per denunziare la brutalità dell’atto e per indicare che si è contro la violenza e la sopraffazione. Bene ha fatto la lingua italiana a mettere in circolo la parola «femminicidio»; il generico «omicidio» risulterebbe troppo blando.



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