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lunedì 28 novembre 2011

Ma la crisi è solo economica?

Stamane mi sono svegliato con una sensazione di malessere fisico, scarsa voglia di alzarmi dal letto, stentavo a ...mettermi in moto.. La causa di tutto : incubi notturni con vari sogni aventi come leitmotiv la crisi. Al risveglio mi sono reso conto che l'argomento dei miei sogni trovava la sua ragion d'essere nella lettura fatta ieri sera prima di addormentarmi, di un articolo di Cesare Pavese "Ritorno all’uomo", pubblicato su “L’Unita” di Torino, 20 maggio 1945, inviatomi da un mio amico, Carlos Sanchez.

"Da anni tendiamo l’orecchio alle nuove parole. Da anni percepiamo i sussulti e i balbettii delle creature nuove e cogliamo in noi stessi e nelle voci soffocate di questo nostro paese come un tiepido fiato di nascite. Ma pochi libri italiani ci riuscì di leggere nelle giornate chiassose dell’era fascista, in quella assurda vita disoccupata e contratta che ci toccò condurre allora, e più che libri
conoscemmo uomini, conoscemmo la carne e il sangue da cui nascono i libri. Nei nostri sforzi per comprendere e per vivere ci sorressero voci straniere: ciascuno di noi frequentò e amò d’amore la letteratura di un popolo, di una società lontana, e ne parlò, ne tradusse, se ne fece una patria ideale. Tutto ciò in linguaggio fascista si chiamava esterofilia. I più miti ci accusavano di vanità esibizionistica e di fatuo esotismo, i più austeri dicevano che noi cercavamo nei gusti e nei modelli d’oltreoceano e d’oltralpe uno sfogo alla nostra indisciplina sessuale e sociale. Naturalmente non potevano ammettere che noi cercassimo in America, in Russia, in Cina, e chi sa dove, un calore umano che l’Italia ufficiale non ci dava. Meno ancora, che cercassimo semplicemente noi stessi. Invece fu proprio così. Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi. Dalle pagine dure e bizzarre di quei romanzi, dalle immagini di quei film venne a noi la prima certezza che il disordine, lo stato violento, l’inquietudine della nostra adolescenza e di tutta la società che ci avvolgeva, potevano risolversi e placarsi in uno stile, in un ordine nuovo, potevano e dovevano trasfigurarsi in una nuova leggenda dell’uomo. Questa leggenda, questa classicità la presentimmo sotto la scorza dura di un costume e di un linguaggio non facili, non sempre accessibili; ma a poco a poco imparammo a cercarla, a supporla, a indovinarla in ogni nostro incontro umano. Noi adesso sappiamo in che senso ci tocca lavorare. I cenni dispersi che negli anni bui raccoglievamo dalla voce di un amico, da una lettura, da qualche gioia e da molto dolore, si son ora composti in un chiaro discorso e in una certa promessa. E il discorso èquesto, che noi non andremo verso il popolo. Perché già siamo popolo e tutto il resto è inesistente. Andremo se mai verso l’uomo. Perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo, di noi e degli altri. La nuova leggenda, il nuovo stile sta tutto qui. E, con questo la nostra felicità. Proporsi di andare verso il popolo è in sostanza confessare una cattiva coscienza. Ora, noi abbiamo molti rimorsi ma non quello di aver mai dimenticato di che carne siamo fatti. Sappiamo che in quello strato sociale che si suole chiamar popolo la risata è più schietta, la sofferenza più viva, la parola più sincera. E di questo teniamo conto. Ma che altro significa ciò se non che nel popolo la solitudine è già vinta – o sulla strada di esser vinta? Allo stesso modo, nei romanzi, nelle poesie e nei film che ci rivelarono a noi stessi in un vicino passato, l’uomo era più schietto, più vivo e più sincero che in tutto quanto si faceva a casa nostra. Ma non per questo noi ci confessiamo inferiori o diversamente costituiti dagli uomini che fanno quei romanzi e quei film. Come per costoro, per noi il compito è scoprire, celebrare l’uomo di là dalla solitudine, di là da tutte le solitudini dell’orgoglio e del senso.
Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrore, ed è l’apertura dell’uomo verso l’uomo. Di questo siamo ben sicuri perché mai l’uomo è stato meno solo che in questi tempi di solitudine paurosa. Ci furono giorni che bastò lo sguardo, l’ammicco di uno sconosciuto per farci trasalire e trattenerci dal precipizio.
Sapevamo e sappiamo che dappertutto, dentro gli occhi più ignari o più torvi, cova una carità, un’innocenza che sta in noi condividere. Molte barriere, molte stupide muraglie sono cadute in questi giorni. Anche per noi, che già da tempo ubbidivamo all’inconscia supplica di ogni presenza umana, fu uno stupore sentirci investire, sommergere da tanta ricchezza. Davvero l’uomo, in quanto ha di più vivo, si è svelato, e adesso attende che noialtri, cui tocca, sappiamo comprendere e parlare. Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o di ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fate per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene. E ci accade che proprio per questo, perché servono all’uomo, le nuove parole ci commuovono e afferrino come nessuna delle voci più pompose del mondo che muore, come una preghiera e un bollettino di guerra.
Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia un senso e una speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione. Ci ascolteranno con durezza e con fiducia, pronti a incarnare le parole che diremo. Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato."

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